DEMETRA
Demetra rappresenta l'energia materna per eccellenza, la vera nutrice e protettrice dei giovani e vulnerabili. Non necessariamente è la madre biologica delle sue creature, poichè sa nutrire con pari amore anche amici, conoscenti e compagni, che in lei vedono la buona madre sulla cui spalla si può piangere. Il suo senso protettivo e la sua determinazione nel difendere sono leggendarie, come l'orsa che protegge il suo cucciolo. Il suo limite consiste nell'identificarsi nel solo ruolo di madre e nella difficoltà a lasciare andare le sue creature.
La donna che incarna l'archetipo Demetra ha bisogno di comprendere che, come la natura con il ciclo delle stagioni insegna, il cambiamento è parte del ciclo naturale delle cose, e resistere ad esso significa solo ristagnare.
La Dea della fertilità può essere madre di tante creature, di un figlio, di un animale, di un opera d'arte o di un progetto creativo. Ma qualsiasi sia l'oggetto del suo amore, deve imparare a lasciarlo andare, affinchè a sua volta segua il suo percorso.
Antica Dea greca della natura e delle messi, simbolizza l'energia materna archetipica.
Dea di fertilità, presiede al ciclo naturale di morte e rinascita.
Figlia di Rea e di Crono, Demetra è descritta nell'inno omerico come sorella maggiore di Zeus, con cui concepì l’adorata figlia Persefone-Kore.
Ma un giorno Persefone, fresca come un fiore, scomparve e sua madre non riuscì a trovarla da nessuna parte. Piangente, Demetra cercò e ricercò ovunque nelle campagne chiamando a gran voce questa figlia che le era tanto vicina da sembrare quasi un suo doppio, la sua infanzia, la sua giovinezza felice. In preda all’ira Demetra afferrò il suo manto verde-azzurro e quasi senza pensarci lo fece in minuti pezzi e li sparse tra l’erba ovunque come fossero spighe di grano. Ma fiori ed erba appassirono ben presto perché la stessa Demetra era l’origine di ogni crescita e il suo dolore faceva sì che la sua energia abbandonasse le piante, che cominciarono ad avvizzire. Fu così che Chloè (la verde), la gioiosa terra, si trasformò per la prima volta nella Demetra autunnale, dai colori giallo oro.
La Dea vagò per la terra morente finchè giunse a una città vicina ad Atene. Lì, sotto le sembianze di una vecchia di nome Doso, assunse l’incarico di nutrice preso la regina di Eleusi Metanira, di cui voleva rendere immortale il figlio Trittolemo tenendolo sospeso sulle fiamme del focolare. La regina terrorizzata la scoprì e la Dea in incognito venne riconosciuta. Demetra restò tuttavia a Eleusi dove sedeva tristemente vicino ad un pozzo, piangendo la perdita della figlia adorata. Un giorno la figlia della regina, Baubo, vide la Dea così triste che volle consolarla. Demetra rifiutava qualsiasi parola di conforto e allora Baubo, per strapparle un sorriso mise allo scoperto maliziosamente i propri organi genitali. Sorpresa Demetra ebbe un sogghigno, la prima risata che la terra moribonda udiva dalla Dea dopo mesi e mesi. Poco dopo Persefone venne restituita alla madre e la primavera fiorì nuovamente sulla terra.
Grata dell’ospitalità ricevuta dagli abitanti di Eleusi, Demetra insegnò l’arte dell’agricoltura al principe Trittolemo e in seguito fece di quella città il centro dei suoi riti misteriosi, i famosi Misteri Eleusini.
Questa storia greca della grande dea è un’evidente metafora del volger delle stagioni, ma rappresenta anche un tenero archetipo del legame tra madre e figlia. Pur essendo una variante del comune mito mediterraneo che mostra come la terra ami e consumi la sua vegetazione, questa leggenda ha di singolare l’accento posto non sull’amore sessuale tra il figlio che eternamente muore e la madre, ma sul legame familiare tra la materna Demetra e la sua adorata figlia Persefone. Questa figlia, la terra durante la primavera, in realtà era solo un’altra forma della stessa Demetra. In sicilia l’identità tra Demetra e Persefone era canonica: entrambe erano chiamate damatres (madri) e venivano raffigurate in modo indistinguibile. Ma la forma più comune della grande dea era una triade di dee e non una coppia. Molti studiosi hanno setacciato i più famosi miti di demetra sperando di trovare il terzo elemento della triade femminile, la terra invernale, la vecchia carica di età, il seme ibernato.
In generale la riflessione si è soffermata su Ecate, che certamente sembra essere la più simile a una vecchia ta le possibili figure divine del racconto. In più essa compare nei punti cruciali della storia, per esempio era l’unica testimone della scomparsa di Persefone. Dato che difficilmente l’onnisciente terra, Demetra, poteva ignorare ciò che accadeva sulla superficie, è ragionevole pensare che Ecate fosse un aspetto della stessa Demetra in qualità di madre terra.
CHIMERA/CHIRONE
Mostro favoloso, figlia di Tifone e di Echidna. Era stata allevata dal re di Caria, Amisodare, e viveva a Patara.
Secondo la descrizione omerica (Iliade, VI, 181-182) aveva la testa di leone, il corpo di capra e la coda di dragone; dalla sua gola uscivano fiamme e col suo alito (molto pesante) seccava tutta la vita vegetale.
Il re di Licia, Iobate, ordinò a Bellerofonte di ucciderla perché essa si dava a scorrerie nel suo territorio. "Essa è una figlia di Echidna", spiegò Iobate, "e il mio nemico, il re di Caria, se la tiene in casa come un animale domestico". Prima di partire per quell'impresa, Bellerofonte consultò il veggente Poliido, che gli consigliò di catturare e domare l'alato cavallo Pegaso, il favorito delle Muse; codesto animale viveva sul monte Elicona, e colà aveva fatto sgorgare per le Muse la fonte Ippocrene, battendo al suolo il suo zoccolo lunato. Pegaso in quel periodo non si trovava in Elicona, ma Bellerofonte lo rintracciò sull'Acropoli presso un'altra delle sue fonti, la fonte Pirene, e gli passò sopra il capo una briglia d'oro, dono di Atena. Bellerofonte riuscì a sopraffare la Chimera piombandole addosso a cavallo di Pegaso, trafiggendola con le frecce e poi conficcandole tra le mascelle un pezzo di piombo che aveva infilato sulla punta della lancia. L'alito infuocato della Chimera fece sciogliere il piombo che le scivolò giù per la gola bruciandole gli organi vitali.
Nel linguaggio poetico prima, e poi anche in quello comune, la parola chimera è venuta a significare i sogni irrealizzabili, le immaginazioni strane e impossibili; sugli scudi araldici la sua figura significa "illusioni vane".
CHIRONE: era il più famoso e sapiente dei Centauri, figlio del dio Crono e di Filira, una figlia di Oceano. Perciò appartiene alla stessa generazione divina di Zeus e degli Olimpici.
Nacque metà uomo e metà cavallo perché Crono, desideroso di nascondere la sua passione per Filira alla sposa Rea, per poterla amare si trasformò in stallone. La natura di Chirone era perciò completamente diversa da quella di tutti gli altri Centauri: era saggio e gentile, versato in medicina e in molte altre arti, soprattutto la musica.
Era amico di Apollo il quale gli aveva insegnato ad usare l'arco. E Apollo, quando ebbe da Coronide, figlia di Flegia re dei Lapiti, un figlio che chiamò Asclepio, lo affidò al centauro Chirone, che gli insegnò l'arte della medicina. Asclepio, dicono gli abitanti di Epidauro, imparo l'arte di guarire sia da Apollo sia da Chirone, e divenne così abile nel maneggiare i ferri chirurgici e nel somministrare erbe medicinali che è ora onorato come il padre della medicina.
Chirone, fra le tante cose, insegnò agli uomini la pratica della venerazione agli dèi, l'inviolabilità del giuramento e le leggi. Anche se aveva la forma di Centauro non aveva nulla a che spartire coi figli di Issione e di Nefele. Viveva in una caverna sul monte Pelio, in Tessaglia, insieme alla sposa Cariclo.
Protesse in modo particolare Peleo durante le sue peripezie alla corte di Acasto; lo difese dalla brutalità degli altri centauri, quando venne abbandonato senz'armi sul monte Pelio da Acasto, e gli restituì la spada che questi aveva nascosto sotto un mucchio di letame. Sempre lui dette a Peleo il consiglio di sposare Teti, e gli insegnò come obbligarla a questo matrimonio, impedendole di trasformarsi. Poi, nell'occasione delle nozze, gli regalò una lancia; Atena ne aveva levigato l'asta che era stata tagliata da un frassino sulla vetta del Pelio, ed Efesto ne aveva forgiato la punta. Quando Teti abbandonò Peleo, questi affidò il bimbo al centauro Chirone che lo allevò sul monte Pelio, nutrendolo con midolla di leone e di cinghiale selvatico e grasso d'orso, perché crescesse coraggioso e forte; o secondo altri, con miele e midollo di cerbiatto perché fosse agile e veloce. Chirone inoltre lo istruì nell'arte di cavalcare, cacciare, suonare il flauto e curare le ferite. A sei anni di età Achille uccise il suo primo cinghiale e da quel giorno portò sempre alla caverna di Chirone le carcasse sanguinanti di cinghiali o leoni. Chirone era un celebre medico, e praticava anche la chirurgia. Allorché Achille, bambino, ebbe la caviglia bruciata in seguito a operazioni di magia praticate su di lui dalla madre, Chirone sostituì l'osso mancante con un osso prelevato dallo scheletro del veloce gigante Damiso.
Secondo una tradizione, Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, fu allevato dal centauro Chirone. Poi, le Muse terminarono la sua educazione insegnandogli l'arte di guarire e di far profezie. Anche il figlio di Aristeo, Atteone, fu allevato da Chirone che gli insegnò l'arte della caccia. Un giorno Atteone fu divorato dai propri cani perché rimase a guardare Artemide, mentre, nuda, si bagnava nella fonte sul monte Citerone. La dea, offesa, lo trasformò in cervo e lo fece divorare dalla sua muta di cinquanta cani. La scomparsa del loro padrone rattristò i cani, ma il centauro Chirone modellò una statua d'Atteone tanto somigliante da farli acchetare.
Chirone allevò anche Giasone al quale insegnò la medicina come a tutti i suoi allievi. Il figlio maggiore di Giasone e Medea, Medeio o Polisseno, fu allevato da Chirone sul monte Pelio.
La causa della morte di Chirone fu Eracle, che nella foga della guerra mossa ai centauri, per errore colpì al ginocchio Chirone con una freccia avvelenata col sangue dell'Idra. Eracle, angosciato, si accovacciò accanto al vecchio amico ed estrasse la freccia, mentre Chirone stesso gli porgeva i farmaci per curare la ferita; ma a nulla valsero contro il veleno e Chirone si ritirò ululando per il dolore sul fondo della grotta.; tuttavia non poteva spirare, perché era immortale. Prometeo in seguito propose che egli rinunciasse a tale immortalità per porre fine alle sue sofferenze, e Zeus accettò tale richiesta; ma altri dicono che Chirone decise di morire non per il dolore della ferita, ma perché era ormai stanco della sua lunghissima vita.
Chirone non perse del tutto la sua immortalità, perché Zeus lo pose in cielo nella costellazione del Centauro.
Fonte: Mitologia Classica
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